Ed io che pensavo fosse tutto uno scherzo. Altre tre giornate senza pudore, lo stesso metro impietoso, il medesimo inspiegabile capolinea. La numerologia ha influito sul divo Claudio, nella logica controversa di un sottosopra che in pochi riusciamo a tutt’oggi compiutamente a spiegare. Ieri e avant’ieri ho sospeso il giudizio molto stoicamente,anche per dare una sorta di vantaggio morale agli esibendi. Ho pensato: “sicuramente avranno recuperato, in due giorni”. Si concede a tutti il beneficio del dubbio. Ma le cose sono andate diversamente, non per tutti, fortunatamente.
Questo carrozzone si è mosso in avanti stancamente anche nella serata teoricamente più facile, quella dei duetti, e qui gli ospiti c’entrano poco. Non che di perissodattili non ve ne fossero tra i padrini, una fra tutti la Cristina D’Avena, passata elegantemente dalla tourneé estiva con i Gemboy al palco dell’Ariston. E’ soltanto che tra i titolari l’abilità equina, a questo giro, si sta sprecando. La scelta di aumentare l’audience di un evento digitale rchiamando sulla ribalta i riferimenti giovanili, in altri termini, potrà pagare in fatto di click e di condivisioni, ma ha castrato la qualità in numerose occasioni. Non voglio dire che i giovani non siano capaci di alzare l’asticella. Il contrario, dato che, attraverso questa elevazione, ci sono più probabilità che nasca una contaminazione reale, un meltin’pot tra sensibilità di varie generazioni. Ma neppure significa che vogliamo un festival over 65, considerando i risultati di un passato non remoto, oppure uno che sia eslcusiva di bimbiminkia a piede libero. L’ibridazione Patty-Pravo/Briga, ad esempio, ci sta pure, ma dove sono i contenuti, atteso che la ragaza del Piper è lì in funzione iconica?
Verificare l’assioma non è così difficile, eccezion fatta per alcune accoppiate da accoppare (metaforicamente, ci mancherebbe) come Mahmood, che richiama Bello Figo Gu non certamente nelle origini, ma nella cantilena (trap?), ben abbinato, a dire il vero, al Dogo Gué Pequeno.
Lo show si spezza in due durante un sipario che richiama l’attenzione, anche se molto meno della Raffaele funambola di Bizet di due giorni fa. Fa breccia la tenerezza di un padre (Bisio) che celebra le canne del proprio figlio: è l’ammissione dolente di una generazione, quella degli attuali cinquantenni, volutamente tenuta nel limbo dell’inutilità dalla generazione che l’ha sovrastata in tutto, occludendone ogni spazio, con la destinazione finale del macero. Il rap di Anastasio è tra le cose più riuscite. Ma è tutto in tema, occhio!
Per l’appunto, il rap: questo passerà alla storia come il Festival più rappato di sempre. Che, in tempi di pragmatica confusione, la musica necessiti di parole scandite per bene? Di fatto, molti pezzi sono stati realizzati in chiave hip hop e con il profumo street addosso. Ed anche quando non c’è scansione black, ci sono parlatoni solenni, come per Marcoré.
Cosi facendo, accade quello che, solitamente, si verifica dopo due ore di attesa dall’apertura di un grande vino di annata. Ciò che sembra confuso, si chiarisce e si esalta. Ma anche ciò che puzza sembra più evidente. Una volta di più, si chiariscono le regole di ingaggio: il Festival è diretto al consumo, molto più che alla semplice percezione estetica. Un prodotto di marketing. Chi lo ha progettato adesso cala gli assi: in epoca in cui il disco non si vende più, è fondamentale far girare i pezzi nel web, su Spotify, sulle piattaforme condivise. Il MySpace è un ricordo lontano: avete visto qualche musicista jazz sul palco?
Cara la mia Italia, vuoi fare girare i pezzi in Europa? In Israele ci devono andare Il Volo (se con Quarta, meglio) o i Boombabash da Mesagne (eroici) e ancora meglio se in dialetto. Tutto il resto sarebbe testimonianza.
Personalmente, credevo e credo in Cristicchi, Ultimo o Turci. Ma è soltanto una sensazione. Pure ieri, infatti, pensavo ad un premio al duetto con Bungaro o a quello con Irek. Ma ha vinto Nada con Motta. È tutto vero.