Il vero vincitore del Festival ce l’abbiamo già ad apertura di sipario. Non appena su Raiuno si sono accesi i riflettori dello show musicale dell’anno, come accade da 69 anni, i telespettatori hanno colto subito la vera e grande bellezza espressa nell’impianto scenografico, i fasti di una tradizione italiana intramontabile. E quando i tre conduttori salgono sul trampolino (una grande metafora della carriera di un artista), la meraviglia sale, sale, sale, così come l’elegante scala a scomparsa che si raggomitola sotto l’orchestra. Brividi del made in Italy. Brividi veri.
Iniziare con un “voglio andar viaaaa”, in fondo, presuppone una buona dose di coraggio. Ma Claudio ce l’ha chiaro in mente come vuole “il festival dei romani” (forse c’è chi mi ha capito), parte in sordina e non si lascia tentare. Senza sfrasciare, con Bisio e Virginia Coscialunga che, come si dice al mio paese, “si stanno ancora prendendo il carattere”. Per dirla tutta, ce ne mettono di tempo per rodare il meccanismo.
Poi la gara. Che parte e fila via.
Renga e Nek, quasi come da copione, non sbagliano una nota, intervallati da Nino D’Angelo e la sua melodia partenolounge da sigla di Gomorra.
Tocca al primo gruppo giovane della rassegna. Quella di Zen Circus potrebbe pure essere una bella idea, tra musica e coreografia da “V per Vendetta”, ma la maniera c’è sempre, nonostante tutto. E si vede.
La Bertè, anche lei, è quella di sempre: graffia, scava e cerca a tutti i costi e per tutta la durata dell’esibizione di far vedere che tra le gambe c’è di più. La musica può attendere, purtroppo, questa volta.
Il Volo prova la seconda furbata ad un Festival, cercando di scivolare nel gusto della platea televisiva con una recall del Grande Amore e la complicità di Gianna. La formula funziona e gli applausi chiamati, in fondo, hanno tanto da dire a tutti. Poi, è chiaro, si è sempre liberi di dissentire, ci mancherebbe.
Il reato di nascere cantato da Danielaccio Silvestri è un mezzo tempo rap che convince poco, pur giocando in casa. Il direttore d’orchestra, infatti, è quel Maurizio Filardo che, per quanto ingrassato, sta a Silvestri come Kit Carson sta a Tex Willer.
Ancora: Shade e Federica Carta. Il pezzo è cantilenante in pieno stile reality, in definitiva, non fa breccia.
La presentazione di Ultimo, “primo in classifica”, evidenzia ancora una volta le debolezze autorali. Il giovane cantautore prova ad aprire una breccia romantica in equilibrio suggestivo tra Moro, Sangiorgi e, fatemelo dire, Amedeo Minghi, ben suggestionato. Il ragazzo non dispiace affatto.
Diverte il sipario Favino/Raffaele, confusi in uno shaker musicale tra Queen, Mary Poppins e Sister Act che fa sorridere mettendo in evidenza le doti di Virginia (semmai fosse necessario).
Meravigliosa Paola Turci, che bilancia una esibizione vocalmente non ineccepibile con un look elegantemente audace che sottolinea l’appeal di una donna matura autrice di pagine musicali preziose. Paola è un monumento di compiuta bellezza e maturità, un’ipotiposi linguistica eternata da “American Pie”. Bellissima e desiderabile.
Viene così il tempo di Motta. Qui bisogna fermarsi: io lo ricordo ad un primo maggio sfigatissimo di un paio di anni fa, quello, per intenderci, in cui l’orgia indiscriminata di monnezza indie fece dire un “mai più” agli organizzatori che ritornarono convinti sui propri passi. Questo giovanotto dalle non proprio eccelse doti vocali lo rimembro fuori posto già a quei tempi, mentre tirava fuori lamenti e, contemporaneamente, mazzolava un tamburo. Ora, come allora, “te.ri.bbi.leee!!!”(dicono a Roma)
E poi, Boombabash! Con onomatopea ed efficacia (anche se vestiti dal tappezziere), sono la sorpresa più gradevolmente pop di metà Festival. Evviva lu Salentu, viva lu mare, viva lu ientu!
Poi arriva, come quasi ad ogni edizione accade, il ciambotto (zuppa di pesce povero tipica del barese), con l’orchestra che cicca clamorosamente l’introduzione di Patty Pravo con Briga. Canzoncina melodica e delicata, con la divina ex ragazza del Piper che sta per perdere le staffe, ma regge la tensione ed il pesante maquillage con acconciatura yautja e finisce tra gli applausi, congedandosi tra gli sfottò di Virginia che la raggiunge a falcate larghe, per Bisio che magnifica lo scoscio e promette: “Ti faro camminare sempre!!!”
È il turno di Cristicchi, barbuto e adulto, direi quasi battiatico, col suo “abbi cura di me”, credo fortemente indiziato di vittoria finale, stando ai rumors.
Poi Giorgia, certamente non al top. E mi fermo qui, perché è l’ultima grande regina.
Per Achille Lauro è fin troppo scontata buttarla in satira: il naufragio è evidente. Se, invece, qualcheduno dovesse smentirmi e chiamarmi gerontosauro, attribuendo al tatuato la palma del precursore di un genere musicale che verrà, solo allora sarò felice di rispondere che nel Giurassico si stava meglio.
Giunge pure il tempo di Arisa da Pignola, che con sincerità, gigioneggia col pubblico, senza particolari affanni, in buona tecnica ma scarsa vena.
Sui Negrita, tranne che per un calante non comprensibile di Pau, non c’è molto da scandalizzarsi. C’è sempre da chiedersi cosa ci facciano a Sanremo.
La verità, però, non la puoi nascondere, come l’oceano di Dalla che non lo puoi recintare. Ed allora, durante la parodia del Quartetto Cetra, anche al divo Claudio scappa: “E qui cantano cani e porci!”. Appunto.
Ancora roba strana, con Ghemon, di bianco vestito come il partner di Lupin III: nulla da dire, un pezzo innovativo. Di fatto, nessuno aveva mai pensato di introdurre strutturalmente il raglio in una canzone contemporanea. Nessuno prima di Ghemon. Poteva esimersi dal cantarlo direttamente lui. Chissà.
Dopo c’è Einar. N.P.
Dopo ci sono gli Ex Otago, tra i pochissimi indie a non stonare. Una canzone piacevole, tutto sommato, con abbraccio finale. Sono un gruppo amato e si sente il perché.
Annina mia, piccola Tatangelo di un lontano 2003 in cui, non ancora maggiorenne e con lo zainetto sulle spalle, aspettavi il tuo turno ad “Andrisani”, come sono lontani quei tempi! Adesso che sei donna, purtroppo, avrai compreso che per fare vendere devi fare vedere. Quanti hanno ascoltato il brano?
Irama, anagramma di Maria (?), è un altro personaggio da talent che ha capito la solfa e condisce il parlato con melodia e gospel. Niente di nuovo, diremmo, mentre il cronometro scorre e Bisio e Raffaele accelerano.
Entra in scena Enrico Nigiotti. Belle premesse, buon look, poche idee opportunamente banalizzate. Peccato, una occasione sprecata. Dice: “Stasera chiudo gli occhi ma non dormirò”. Nemmeno io.
Chiude Mahmood, che sembra Baglioni. Chissa cosa avrà pensato Salvini…
La serata termina con il Nulla che presenta se stesso. A domani. Forse.