In un fine settimana che non conclude un bel niente (sempre che il niente si possa dire bello), si sentono virtualmente rombare i motori all’uscita dai box. Nessuno più sopporta la clausura, questo è un fatto. Ma sullo sfondo della speranza di un ritorno alla normalità, persino il sacrificio fatto a pezzi e bocconi (a colpi di decreti di un Governo “indeciso a tutto”) adesso sembra quasi sbiadirsi e perdere i suoi sinistri connotati.
Resta un bilancio. Fatto di realismo, più che di cifre: cosa abbiamo perduto? Cosa abbiamo lasciato per strada? E, soprattutto, non avremo, per caso, perduto quello scampolo di innocenza anche abbastanza naif che ci avevano lasciato i nostri nonni in eredità?
Ci vorrà del tempo a rispondere, forse anni, attendendo, come è logico che sia, che il tempo sfumi le linee di contrasto marcate nella nostra memoria recente. Che sono state impresse a fuoco da una emergenza violenta, non tanto per gli effetti drammatici in taluni casi (vaglielo a dire a chi ha ancora una mamma o un nonno intubato), quanto per l’evidente mancanza di una leadership morale e culturale in un paese (e perdonatemi la minuscola) che ha dovuto aggrapparsi alla musica per trovare conforto dalla sofferenza e dall’incertezza.
Non siamo all’anno zero. Potremmo essere, diciamo così, nel giorno 13 maggio 1948. La storia della Repubblica Italiana, infatti, era appena uscita faticosamente dagli adempimenti costitutivi. Ad Enrico de Nicola, l’avvocato napoletano scelto come traghettatore tramite l’Assemblea Costituente, da capo provvisorio e primo presidente, era subentrato, il giorno precedente, Luigi Einaudi, eletto in Parlamento al quarto scrutinio valido. De Nicola ritornò alla politica, non uscì di scena, ricoprendo, anzi, tutte le alte cariche istituzionali, probabilmente, secondo le cronache dell’epoca, per effetto del forte appeal esercitato dal legale partenopeo anche prima che la Repubblica nascesse. De Nicola non era un uomo nuovo, un “avvocato del popolo”, un descamisado, un Masaniello. Al contrario, era l’espressione sociale di quanto di più distante ci fosse dal ventre popolano. Un fine giurista, di quella scuola napoletana un tempo egemone culturalmente in Europa, che aveva addirittura ricoperto incarichi di governo nell’Italia monarchica, da Giolittiano qual era. Non un pivellino, insomma, visto che gli toccò persino di presiedere la Camera dei Deputati durante il discorso “del bivacco di manipoli”, prima dello scioglimento della stessa nel 1924. De Nicola, però, pur ricandidandosi nel Partito Fascista, non assunse mai la carica parlamentare e si ritirò in buon ordine, seguendo una prassi di molti intellettuali liberali dissidenti, tra cui lo stesso Benedetto Croce, addirittura indicato come candidato dai partiti di sinistra alla prima presidenza della Repubblica. Il giurista napoletano aveva una freccia in più al suo arco: sapeva di essere autorevole, e questo lo metteva al riparo dalle accuse possibili di una restaurazione del conservatorismo in senso stretto, dalle derive controrivoluzionarie. No, era un uomo spendibile ed affidabile, per quanto, in un’Italia che contava a quel tempo un tasso di analfabeti che, eccetto alcune regioni, oscillava ancora tra il 10 ed il 30 %, non era il Caio Mario della situazione. All’epoca, però, in barba al mio credo evoluzionista (almeno in senso sociologico), c’era una politica con il sale in zucca. Per quanto lo scontro fosse cruento, specie perché tra quei banchi sedeva gente che aveva vissuto direttamente la contemporaneità di Marzabotto, Sant’Anna di Stazzema o Fosse Ardeatine, la parola d’ordine era “bene comune”. Un po’, se vogliamo adeguarci ai tempi, seguendo la differenza qualitativa che intercorre quando l’espressione “hai la mia parola” veniva pronunciata ieri da mio nonno, oggi da un consigliere comunale.
Inevitabile che il confronto scatti con il passato e che il salvacondotto del benaltrismo venga fatto a brandelli dal primato morale di uomini la cui condotta oggi potrebbe persino essere definita bacchettona o retrograda. La morale, però, è uno di quei valori non soggetti ad adeguamento o update, almeno nei termini drammatici in cui si esprime un’emergenza globale. In caso di disgrazia, come è fisiologico che avvenga per gli animali (e quindi anche per il bipede uomo), chi è impaurito va a nascondersi. Le pecore spaventate corrono nell’ovile dello Stato e ad accoglierle e rassicurarle chi trovano? Non si fanno nomi, ma non so quanti vorrebbero essere curati da gente laureata all’Unversità della vita o all’Accademia della strada. Guardare e capire: siamo messi male. Male per davvero, se consideriamo che abbiamo passato tutto il tempo che la tecnologia ci ha fatto risparmiare a cercare di abbattere il classismo dei titoli, mentre così distruggevamo le competenze. Avremmo potuto seguire l’esempio del passato ed invece abbiamo fatto la guerra alla speranza (non il ministro). Leggete, invece, quello che diceva De Nicola nel suo messaggio del 15 luglio 1946 alla Costituente: «La grandezza morale di un popolo si misura dal coraggio con cui esso subisce le avversità della sorte, sopporta le sventure, affronta i pericoli, trasforma gli ostacoli in alimento di propositi e di azione, va incontro al suo incerto avvenire. La nostra volontà gareggerà con la nostra fede. E l’Italia – rigenerata dai dolori e fortificata dai sacrifici – riprenderà il suo cammino di ordinato progresso nel mondo, perché il suo genio è immortale».
Abbiamo rischiato grosso. Forse stiamo ancora rischiando, perché la ripresa è dietro l’angolo e non siamo di fatto pronti a nulla: le aziende chiedono misure e soldi, ma le banche (sempre loro) dicono di avere esaurito i plafond; le scuole non riaprono prima di settembre, ma nessuno ha pensato seriamente alle delicate questioni della mobilità; masse di diseredati (che tali sarebbero stati anche se non fosse arrivato il Covid 19) premono per approfittare di finanze pubbliche e lo Stato elergisce prebende a pioggia, sperperando soldi ed energie; i professionisti ed i cittadini resilienti (quelli che le tasse non hanno mai smesso di pagarle) sarebbero pronti a ripartire ma chiedono chiarezza, mentre la lucidità della classe politica appare simile a quella di un ubriaco colpito da un’insolazione. Un ruolo fondamentale è quello dell’informazione, di contro divenuta sempre più comunicazione di regime, in momenti convulsi come questo. Anche la televisione cambia: non si aspetta più l’illusione del terno secco del lotto alle 8, ma la Conferenza stampa del Commissario Borrelli (il laconico capo della Protezione Civile che ha limitato questa usanza a due uscite settimanali), che fino a una settimana fa aveva più share del Festival di Sanremo alla serata clou. Stavolta, però, la posta in gioco non è la moneta, ma la speranza (non il ministro).
Una giostra sgangherata alla quale ci siamo abituati cantando dai balconi, con la stessa consapevolezza in cui, da ragazzi, abbiamo cantato a squarciagola in riva al mare che “il Carrozzone va avanti da sé“. Tutto benissimo, perciò, perché ce lo dicono Burioni, Tarro, Pregliasco, Capua, Gismondo, Brusaferro, Locatelli, Crisanti, Galli, Bassetti o Ascierto (quest’ultimo lo assolverei in parte, perché almeno parla poco). Va così stranamente che non mi meraviglierei se, alla riapertura delle scuole, i bambini non giocassero più a scambiarsi le figurine dei calciatori, ma le immagini dei virologi della collana “Epidemie nel mondo” (hai visto mai?). Tra le aberrazioni, quindi, dettate da una mancanza di conoscenza e di competenze, c’è quella di parlare a sproposito e qui c’è poco da dibattere, il Nobel va a Zuckenberg e soci, capaci di aver creato un’imponente arma di distrazione di massa che ha innescato le reazioni peggiori nell’animo umano, addirittura letali in questo momento. Le dispute si centuplicano, le liti sono un nuovo modulo espressivo, il linguaggio si imbarbarisce ed il miraggio del Sesto Grado di separazione perde (purtroppo) la sua efficacia deterrente e regala all’imbecille di turno, laureato presso enti di cui ho già detto sopra, l’illusione di contendere la Verità a gente intoccabile, che non raggiungerebbe neanche nei sogni.
Non so come potremo uscirne, ma so che ne usciremo. Allora probabilmente smetteremo di beccarci come i capponi in rete, che assommano al dramma della castrazione anche il destino avverso, ma che continuano a litigare senza tregua con i consorti. Duro pensare che, però, cessino tutte le vertenze aperte o i contenziosi morali propri della nostra cultura post-contemporanea, la sagra dell’IO e del primato dell’individuo sulla persona. Ed è questa la vera sfida a cui deve rispondere con energia la generazione dei 40/50enni, la cosiddetta generazione del macero, troppo vecchia per l’apprezzamento e troppo giovane per la compassione.
La vedo così: domani più di prima, si riparte dal 13 maggio 1948, senza spazio per il passato, senza pretese per il futuro, con il solo obbligo di rendere migliore il presente, vivendolo. Domani, non lunedì, intendo, ma un giorno prossimo in cui tutto questo dovrà finire. E solo allora avremo da raccontare a chi ci sarà dopo di noi che nel 2020 abbiamo combattuto (e forse vinto) una battaglia che sarebbe partita da un pezzo di RNA scappato da un pipistrello che ebbe la forza di seminare il panico tra circa otto miliardi di individui. Sperando che loro, i nostri figli, siano capaci di capire e di perdonarci.