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La pandemia ci avrebbe resi migliori

Luglio 3, 2021

Non è andata esattamente così. E dire che c’era stato anche il tempo per percorrere convinti questa magnifica ossessione. Non è andata, tuttavia, precisamente in questo modo. L’unico rammarico arriva dal sovvertimento delle regole galtoniane o darwinistiche, che la risposta adattiva agli stimoli esterni generi sempre un potenziamento funzionale: è filata nel segno opposto. Il mantra comune è che ne siamo usciti peggiori di quando ci siamo entrati. Varrebbe la pena di chiederci il perché.
Il mondo procede su velocità che si adeguano ai tempi: i nostri nonni, viaggiando in traino dalla città alla campagna e viceversa, parametravano questa lentezza ad ogni atto della vita, adeguando le unità di misura delle ore e dei giorni. Una visione che ha consentito loro (molto probabilmente) di vivere la propria esistenza con una discreta serenità, percependone un’estensione differente, un movimento apparente più lungo e lento. Atteggiamento utile ad affrontare le grandi disgrazie piovute loro addosso, che si allungavano dalle Guerre alle carestie, metabolizzando anche drammi come le morti precoci di bimbi e capi famiglia, per lo più accettati come naturali, senza fare troppe pieghe. In questa ottica, anche le distanze finivano naturalmente per essere tarate su tali velocità. I soggetti ricavavano l’atteggiamento giusto per fronteggiare la vita, partendo da una condizione di inadeguatezza strutturale e poggiandosi, in ogni caso, alla grande eredità filosofica delle civiltà del Passato. Senza scomodare Franco Cassano ed il suo “Pensiero meridiano” (Laterza, Bari, 2015), l’uomo contemporaneo, che si ponesse in una prospettiva di autoanalisi, non dovrebbe avvertire alcuna difficoltà ad ammettere il fallimento del proprio velleitarismo. Nella confusione dei ruoli a cui ci ha assuefatti la “Rete delle reti”, che ha sgretolato persino un cardine solido come la teoria del “Sesto grado di separazione”, dichiarando possibile ogni incrocio, con la complicità truffaldina dei social media, l’uomo contemporaneo si riscopre solo più che mai. Ed è anche più arrabbiato ed anarchico. Una condizione che mette a nudo la sua volontà di potenza, riducendola alla sfera onirica, a ricercare il delirio narcisistico nella virtualità, assunta come sostanza psicotropa, molto spesso ricercata con insistenza e reiterazione. Ci ha pensato la scienza a mettere sotto osservazione il fenomeno, a partire dagli studi di Sherry Turkle che, nel suo saggio “Life on the screen” (1995), descrive chiaramente il tunnel: «All’inizio – dice la sociologa statunitense – il computer è solo un accessorio. Ci aiuta a scrivere, a tener traccia dei nostri conti ed a comunicare con le persone. Al di là di questo, esso ci offre un nuovo modello di mente ed un nuovo mezzo di progettare nuove idee e fantasie. Più di recente, esso è diventato molto più di un accessorio o di uno specchio: il computer ci fa andare oltre lo specchio». Non serve aggiungere altro.
Il ritorno sconfortato ai nostri giorni ci rende la consapevolezza che, dai tempi dell’osservazione della Turkle, in tecnologia si sono compiute almeno altre due grandi rivoluzioni, certamente meno evidenti, ma non per questo meno importanti, rispetto alla rivoluzione digitale, che ha segnato lo spartiacque contemporaneo tra nativi ed immigrati digitali. La ri-mediazione di molti strumenti tradizionali della comunicazione umana (il telefonino che, improvvisamente e nel giro di un lustro, è passato da semplice cornetta a pc, fotocamera, scanner, videocamera, ecc.) ha fornito all’homo sapiens sapiens l’alibi di potersi trasformare in homo internens, con tutti i deliri che ne conseguono. Primo fra tutti, l’abdicazione al senso della responsabilità personale: il logorio dei rapporti interpersonali è fortemente influenzato da questo repentino cambio di prospettiva, in cui l’uomo contemporaneo accetta ogni interazione situata, che gli permette di scaricarsi del senso dell’impegno. Come dire, se è compito di tutti, non è merce di nessuno. La prima vittima accertata è il senso della comunità, dell’appartenenza, reso impalpabile, inattingibile, ininfluente. Un risultato in linea con i comportamenti patologici indotti dalla rete, in base ai quali l’utente medio può scegliere di percorrere il delirio di identità, confondendo ruolo ed ambito, trasportando il reale in un mondo che, non essendo fisico, non chiede alcuna operazione di realtà e di verità. A questo proposito, una certa filmografia quasi contemporanea, che va dai fratelli Wachowski a Kathryn Bigelow, aiuta ad orientarsi.
La velocità, già. Come nel Paradosso del piè veloce Achille e della tartaruga, essa è sempre un parametro che si riconosce in un semplice punto di vista, una questione di prospettiva. Ma la dimensione di un’opera (ed il suo orientamento) può essere discussa solo se l’opera esiste. Ed il soggetto della riflessione, l’essere umano e la sua socialità, sono stati messi sotto i piedi letteralmente e prosaicamente da un pensiero nichilista che riprende, privo di fortuna e con meno autorevolezza, alcune riflessioni filosofiche nate a cavallo tra ‘800 e ‘900, senza, tuttavia, nemmeno tentare di risolvere quelle aporìe che esse stesse avevano aperto sul destino della società. Ci ha provato quest’ oggi un gigante del nostro tempo, che nella profonda riflessione sulla transizione ecologica, messa a dura prova, per ciò che riguarda il nostro Paese, dal recente determinato del Trilogo europeo, ha spiegato con chiarezza didascalica che la “transizione ecologica è una nuova epoca storica”. Davanti all’assemblea del X Congresso nazionale di Slow Food Italia, Carlin Petrini, padre e mentore della “chiocciola”, ha precisato come il cambio di paradigma contemporaneo ed indifferibile consista semplicemente in una sorta di correzione degli errori di parallasse. L’indio Guaranì, infatti, ha un modo ben diverso dall’occidentale tipo di accettare ed adeguarsi agli stilemi di un’associazione e, con essa, alle regole di ingaggio della contemporaneità. E questa problematica investe tutti i luoghi dello stesso pianeta, a dimostrazione che l’effetto farfalla (vedi Teoria del Caos) è molto più di una semplice congettura teoretica sui destini incrociati dei viventi. L’unica salvezza, insomma, sta nella solidarietà reale, nella comunità, in un abbraccio olistico che suggella la naturale assemblea dei viventi e delle cose inanimate.
Mentre il conflitto tra lentezza e velocità partorisce un corto circuito della ragione, siamo tornati a bordo del traino tirato dal nostro mulo, ad osservare quel panorama che sfila in rassegna. Cos’è che non ha funzionato, torniamo a ripeterci, nell’ossessione di categorizzare anche ciò che rimane inattingibile, alla luce delle nostre attuali facoltà epistemologiche? Avremmo voluto tenere i piedi solidi sulla superficie della Terra. Ed invece abbiamo preferito una scienza che non avesse la Vita al centro del suo obiettivo. Avremmo potuto pensare con lentezza. Abbiamo, diversamente, scelto di accelerare, “guidando a fari spenti nella notte”. Avremmo dovuto credere al legame profondo che tiene unite le nostre singole condizioni in un’unica ed universale famiglia. Abbiamo raggiunto, di converso, la saturazione delle individualità, una vittoria afona al termine di un’estenuante escalation simmetrica che non ha vincitori, ma solo sconfitti. Ne sarà valsa veramente la pena?

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Giornalista, Scrittore, Docente Universitario, Presidente della Condotta Slow Food delle Murge

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