Proprio così. Confesso che è molto forte la tentazione ermetica di chiudere questo pezzo con un titolo epigrammatico. Anzi, con l’epitaffio piantato a forza sulla tomba della dignità perduta. Per la seconda volta nel breve volgere di un mesetto, prima a Barletta, ora ad Andria, sono andato ad ascoltare cosa avesse da dire (ancora) Roberto Tarantino, il coraggioso curatore della riedizione del diario di suo nonno, il colonnello Francesco Grasso, capo della Resistenza militare del presidio di Barletta, all’indomani della resa di Badoglio. La storia di un eroe per caso (e scusatemi se tra “un” ed “eroe” non ho messo l’apostrofo, e se questa cosa la capiranno in pochi), che ha avuto, nel suo pantheon, rispetto e venerazione per la parola “dovere” (e ri-scusatemi se è poco).
Questo giovanotto (Tarantino), da pochi mesi in pensione dall’incarico di preside, non cede alla violenta volgarità dei tempi e resta mentalmente ed in maniera militante legato stretto alla poltrona di educatore, perché, come si capisce nel corso dell’incontro, non si può sempre fare finta di niente. A Barletta, durante la prima uscita, aveva affondato: “Se restiamo fermi, oggi, cosa diranno i nostri nipoti di noi, domani?”
Qui, nel Seminario vescovile di Andria, cambiano le parole ma la somma non cambia affatto. Chi conosce bene Roberto Tarantino, sa bene che, da sportivo consumato, sa riconoscere i meriti dell’avversario. Ma sa pure che le partite non ci sta a pareggiarle. Mettere fuori, in una veste tipografica al passo con il futuro (a proposito, bravi gli editori della piccola casa Durango), le memorie di un anziano ufficiale, diventato eroe semplicemente per avere compiuto il dettato morale di un soldato a 55 anni, equivale a tirare un ceffone alle coscienze narcolettiche dei contemporanei. Ma chi glielo fa fare? E, di converso, chi glielo fece fare a Francesco Grasso, prossimo agli onori della quiescenza? Qui arriva il bello. Quando tutto è perduto, scrisse qualcuno, nulla è perduto. Se, infatti, il Male è banale (e le maiuscole non sono fuori luogo), l’accettazione dello stesso è diabolica. Proprio come quando si parla del transito delle nostre città dalla barbarie alla decadenza (op.cit.), laddove la barbarie è la violenza e la matta bestialitate, la decadenza è la presa d’atto e l’accettazione della medesima.
Fatemi portare un fiore alla memoria di una grande donna: Maria Grasso. Potrebbe sembrare un esercizio di “captatio benevolentiae”, ma Roberto conosceva, fin troppo bene, nel proprio dna, la determinazione di sua madre. Oggi non è superfluo ricordare che, tra le mani che appuntarono la medaglia d’oro sul petto della Città di Barletta, c’erano anche e soprattutto quelle dell’anziana professoressa, figlia di Francesco Grasso che, attraverso le fitte corrispondenze con Gerhard Schreiber e con Mario Pirani, si rese lenta ed inesorabile ricamatrice del ricordo. E la sua determinazione risuonava nitida, nelle sue telefonate mattutine in cui esortava me, all’epoca ancora giovane cronista, a lavorare per restituire giustizia ai soldati del presidio di Barletta. “Non abbiamo molto tempo”, diceva.
In questo libro, ben diverso dalla prima edizione che mi donò e che conservo gelosamente, c’è un po’ di tutti noi italiani. Il dramma diventa attualità e si sublima nel racconto stentoreo e lucido del detenuto, anzi, del deportato. C’è l’anteriorità di un futuro oggi sostanziato in storia. C’è tutto quello che serve per risvegliarsi dal sonno profondo della ragione. Perché anche oggi, come ieri, non c’è più tempo.