Se si ama, non si resiste. E c’è prova di quello che dico. Come quando, magari celiando, si dice che quel film lo guardereste tutta la vita? Esattamente così. Dopo averlo vissuto in silenzioso ossequio, nel tardo pomeriggio di martedì scorso, infatti, ho bissato con gioia ieri sera (domenica 9 dicembre), mentre prole e consorte se la vedevano col Grinch, in simultanea. Questa volta, però, trattandosi di una proiezione domenicale, la sala era davvero piena.
Evitando di spoilerare tutto, secondo un’abitudine molto in voga attualmente, voglio subito dire che ciò che meno mi ha interessato della pellicola, alla cui realizzazione hanno sovrainteso sia il chitarrista Brian May che il batterista Roger Taylor, è stabilire il peso dell’identità sessuale di Faroukh, né tantomeno scoprirvi un numero maggiore di relazioni libertine rispetto a quello di cui ci ha parlato la popular paper britannica. Il film, al contrario, è un’epifania anticipata del giudizio collettivo: la conferma nelle stroncature della critica saccente, in realtà, si sovrappone pari pari a quella dei colleghi della stampa specializzata con l’uscita del singolo progressive che da il nome al lungometraggio. Ma solo adesso, di contro, tutti i guru del web corrono a raccontare che la vena freaky di Bohemian Rhapsody nasce dalla volontà tutta mercuriana di liberarsi del pesante fardello di una bisessualità tompagnata da pesanti macigni di perbenismo elisabettiano (un po’ in stile Windsor, se volete), per cui Mercury da Zanzibar era una specie di Lady D. dello spettacolo, felice solo dopo avere abbattuto il muro di un matrimonio capestro. Analogia devastante, anche per lei, come per Mercury, la serenità che seguiva la liberazione è durata poco.
Questa narrazione di Freddie Mercury, perciò, delude chi si attende un polpettone biografica in stile opera omnia, una specie di Alexander enciclopedico, senza la narrazione febbricitante di Oliver Stone, che aveva ripreso il sovrano macedone con il medesimo piglio sciamanico e misterico con cui aveva avvolto la figura di re Lucertola nel suo The Doors (peraltro, anche in quel caso il parere dei fan circa il trattamento riservato a Morrison fu ampiamente controverso).
I santi non si toccano, insomma, ma anche qui il problema resta il principio per cui, ai giorni nostri, una teoria sia valida poiché accettata e non il contrario, come sempre nell’universo social. Cosa ci si aspettava da questo film, allora? Se, per caso, non vi sembrasse di aver già ricevuto una risposta sufficientemente logica, possiamo muoverci per congetture, iniziando da ciò che, oggettivamente, non ha funzionato, per procedimento maieutico. Primo, le similitudini fisiche con i Queen originali e compagnia cantante. Anche qui, esiste una solida corrente di pensiero che ritiene le somiglianze dei protagonisti addirittura ferali per la buona riuscita. Così, per fare un paragone cinematografico, come avviene in Thor Ragnarok, quando Loki mette in scena un’epopea falsificazionista per le coscienze degli asgardiani narcolettici, venendo sgamato subito dal dio del tuono. Troppo uguale, insomma, troppo falso.
Stavolta, in ogni caso, anche questo aspetto è passato in secondo piano, perché, al di là della gestualità ossessiva di Rami Malek, la differenza fisica degli occhietti sporgenti del bravo attore egiziano e l’insistenza della camera su dettagli cerulei hanno fatto chiaramente gioco all’allegoria. Questo metodo, che non vale per l’astrofisico della chitarra, praticamente un clone (e vorrei vedere, con May sul collo durante shot e montaggi), si ripropone per Taylor mani di forbice e per Deacon che, obiettivamente, nel suo parodo iniziale, abbastanza anonimo ed intrusivo, appare come un frichettone con tanto di parrucca posticcia.
A questo punto, altro è parlare delle emozioni che questo film dissotterra, sopratutto in noi che eravamo quelli della colonna sonora di Highlander, quelli di Friends will be friends, quelli di Livin’on my own, quest’ultimo brano incarnante la vera liturgia della dissoluzione, della fine dello stereotipo borghese forgiato dal thatcherismo ipocrita, della liberazione della vena queer in ciascuno di noi. Perché, e vi sfido sul punto, non c’è nessun testimone di quel periodo che non abbia immaginato, almeno per un battito di ciglia, di indossare giacca da contrammiraglio con spalline e calzamaglia a scacchi,per immaginarsi protagonista della catarsi orgiastica di questa contemporanea celebrazione dionisiaca, e dirsi libero dalla convenzione sociale (molto più visibile in UK) che aveva messo tranquillo il mondo a cavallo tra Ottanta e Novanta. Quando, cioè, l’inquietudine dell’atomica era stata spazzata via definitivamente dalla Perestrojka e dalla forza del movimento omosessuale mondiale con un Mercury elevato a portacolori di campioni come Jimi Somerville, Boy George o Pete Burns.
Era quella forza che mi aspettavo di ritrovare nella pellicola che ho già visto due volte (e chissà quante volte ancora, prima che esca per l’home video). Mercury era così descritto nel mega book del Live Aid dalla copertina rossa che mia sorella aveva acquistato in edicola raccimolando le monetine: «Freddie avanza, ha lo sguardo lucido ed i muscoli da macho». Quello stesso machismo che era diventato pochade nel video di I want to break free, si ritrova in quasi tutto il film, accompagnato dalla sottolineatura a fuoco di una debolezza evidente e di una disperata ricerca di conferme, come il politico di turno che fruga negli occhi della prima fila di intervistatori la conferma che le cose dette siano sensate e condivise. Buoni pensieri, buone parole, buone azioni: anche indossando la maschera del clown triste, quando il sipario cala e lo show deve andare avanti. Freddie è umano, troppo umano. Adesso, però, lo spettro della fine non lo spaventa quanto l’idea di non potere essere appieno ciò che il destino ha deciso per lui. Un po’ come Faber, che in un’intervista prima di morire confessava candidamente, da anarchico e miscredente di non avere tanto paura della fine, che gli avrebbe fatto provare la buona dose di paura, quanto della morte civile, di non potere più essere in grado di esprimersi fino in fondo.
L’amore diventa, come sempre, il passepartout salvifico anche per quest’anima disperata, che uscirà dal suo van con la fisicità di sempre, due flessioni, tre saltelli ed un roteare di braccia, prima di darsi in braccio al suo pubblico. Già, il suo pubblico. Perché a Wembley, non importa se al Live Aid o durante il maxi concerto dell’anno successivo, eravamo molti di più di centomila. Credetemi.