Quando ho ricevuto l’invito a partecipare alla visita di questo locale nel cuore del Sasso Caveoso della Capitale della Cultura 2018, non mi immaginavo di dover faticare tanto a raggiungerlo. Poi la riflessione. Un mio vecchio amico e mentore mi sussurrava sempre: «La qualità non è mai un caso, ma è il risultato di uno sforzo intelligente». In pieno furore auto-motivazionale, compio a passi piuttosto nervosi il tragitto in discesa che mi separa da una stradina curva sul precipizio, diretto alla sede materana di questo nuovo fenomeno pizzaiolo nato nel Cilento e pronto a dare la scalata alle gole d’Italia.
L’arrivo è un’esperienza dello spirito: specie se in un venerdì abbastanza casual all’ora di pranzo. Mi accoglie o, meglio, ci accoglie Mariateresa, la pierre della catena che, con dolcezza irremovibile, ci sistema attorno al tavolo, pronti a partire per questo breve, quanto intenso, viaggio a tavola. Ella ci intrattiene amabilmente, argomentando la scelta di questa nuova intrapresa materana, decisa a promuovere, nella sua cucina, un concreto matrimonio con le pietanze del paniere del Parco dell’Alta Murgia, diretto, attualmente, da un cilentano virtuoso.
Prima, però, giro un occhio intorno per riconoscere nel locale la tipica architettura ciclopica del sasso, la costruzione povera di una Matera cristallizzata in un tempo che fu. Arredo di gusto, minimale quanto basta, con tutte le comodità del caso. Giusto il tempo di lavare le mani, prima di dare inizio all’esperienza. Premetto che, a riguardo dell’argomento pizza, almeno dopo la lettura dell’illuminante saggio storico “Con Gusto” di John Dickie (Laterza, 2007), non sono mai a corto di riserve. Perché, partita come cibo di strada, questa pietanza napoletana, che (con grandissima pena, non solo dei suoi interpreti) ha ottenuto anni addietro il riconoscimento infame di STG (specialità tradizionale garantita, e quindi violentabile), diviene spesso oggetto di sopruso seicentista da parte di pizzaioli senza scrupoli ed idee. Mi è capitato di vedere magnificate (e non in USA) pizze con l’ananas, con l’uovo lesso, con le stecche di vitello ed ogni altra ignominia possibile, in nome di un mal digerito (e ci sta bene) proposito di innovazione. Quindi anche qui avevo le antenne alzate.
Le cose sono andate ben diversamente e ve la faccio brevissima. L’idea, nata nel Cilento, sposa le possibilità identitarie senza alcuno stupro al palato. «Questi cilentani sono tipi davvero strani», penso richiamando alla memoria il racconto di un attore di Paestum che mi narrava la sua terra come la “parte povera di una Campania povera”. Questo, in verità, avveniva 25 anni fa, circa. E se oggi l’affermazione è archeologia sarà merito esclusivo dei cittadini di questo antico spicchio magnogreco divenuto, nel breve volgere di un paio di decenni, un modello da esportare. Un modello che si rifrange con rigore anche nella pizza sul tavolo.
La velocità della mente mortifica sempre ogni esperimento: dopo avere portato alla bocca la pizza fritta, sormontata da peperone crusco, fungo cardoncello e Pallone di Gravina, capisco quasi istintivamente che abbiamo a che fare con un boccone di qualità. Ruffiano quanto vuoi, ma decisamente schietto, come quelle belle donne che non hanno paura di mostrarsi al postino in ciabatte e bigodini, perché consce della propria avvenenza celata.
Poi è stata la volta di un altro paio di portate, sempre accompagnate da generosi calici di ben abbinati vini locali o quasi (ma da purista, continuo a preferire il luppolo, perdonatemi). Su di una di esse vorrei, però, soffermarmi: la pizza Cosacca, cavallo di battaglia, dicono, dell’expertise trapiantato all’ombra dei Sassi. Qui realizzi che la nonna ne sapeva sempre una in più. Questa preparazione, ben lievitata e maturata, assieme alla salsa rossa del pomodoro San Marzano, schiera in rassegna una grattugiata generosa ed antica di un pecorino stagionato come quello che mia nonna portava dalla sua terra (era lucana, ebbene si), orgogliosa dell’aroma in bilico tra il tostato e l’animale che esso sprigionava una volta riscaldatosi dopo essere stato liberato dalla prigionia del suo scalzo con un fendente deciso e pesante. Non so proprio dire se il nome Cosacca sia un tributo alla sottigliezza di quella linea rossa di pomodoro che si stamperà ruffiana sul tovagliolo, nell’atto pietoso della strusciata del muso. Nemmeno se il nome sia ispirato allo spirito guerriero dei cavalieri di Balaklava o del loro comandante, quel Pavel Liprandi, che dovrebbe avere avuto lontane origini italo-meridionali. Sta di fatto che mi piace e non poco.
Tempo di mordere un cannolo delicatissimo ed essenziale, brindare con un amaro prodotto a pochi chilometri dalla città di Parmenide, salire su un Ape calessino e salutare. Un lavoro duro, dicono, ma qualcuno dovrà pure farlo.